Il codice generativo e i suoi verbi

Il Convegno ecclesiale nazionale - Firenze 2015

La Chiesa italiana vuole interrogarsi su un nuovo umanesimo in occasione del Convegno ecclesiale di Firenze, ma non è facile capire di quale nuovo umanesimo vogliamo parlare. Personalmente credo che siamo per la prima volta, in maniera sempre più netta, sempre più esplicita, di fronte a un bivio: c’è un’ipotesi che riguarda la nostra vita sociale, ivi compresa la vita cittadina, che immagina il mondo costituito da singoli individui – il legame sociale c’è, ma lo si immagina fondamentalmente mediato dal sistema tecno-economico. Questa è una ipotesi molto evidente: esiste un sistema tecnico, un sistema tecno-economico che diventa sempre più ampio e al limite globale, che è in grado di dare risposte molto efficienti a tutta una serie di bisogni, istanze, desideri, di singole persone, dei singoli individui. Allora ci si può immaginare un modello di crescita, di sviluppo, dove si fa funzionare questo sistema in maniera sempre più avanzata, con un legame sociale basato sulla capacità di produrre efficienza, di produrre risposte alle domande degli individui e una radicalizzazione in termini di diritti individuali. Questo è il modello che ormai si va affermando. Il tema della famiglia è qui: noi siamo, io credo per la prima volta in Occidente, di fronte all’ipotesi concreta che le due dimensioni fondanti la famiglia, cioè la relazione affettivo-sessuale e la relazione intergenerazionale, si pensano come puramente individuali. Da una parte il rapporto affettivo-sessuale è una questione che riguarda singoli individui e la loro passione; dall’altra, il rapporto intergenerazionale non ha più bisogno di quella cosa che abbiamo chiamato famiglia, perché ci si può riprodurre a prescindere. E quindi – il caso della famiglia lo cito perché è esemplare – siamo in una fase in cui c’è un’ipotesi di radicalizzazione del processo di individualizzazione. Il legame sociale c’è, ma ha cambiato natura, semplicemente: ci immaginiamo un mondo di individui tenuti insieme da sistemi tecnici.

Le città dobbiamo pensarle solo così? Cioè il nostro problema è gestire in maniera sempre più efficiente le città per risolvere i vari problemi? Oppure si può immaginare una strada differente?

Non è tanto facile trovare una via diversa, e quindi dovremo cercare di essere umili e di sapere che la questione è molto impegnativa.

Qualche mese fa il cardinal Ravasi ha organizzato un incontro sulle donne (“Le culture femminili tra uguaglianza e differenza”) e ha usato l’espressione «codice generativo». Credo che il codice generativo sia uno spunto per provare a immaginare una strada che non sia semplicemente la riproduzione di questo processo di radicalizzazione dell’individuo.

Il codice generativo che, per sintetizzare, significa che ci si sente dentro un prima e un dopo, riconoscendo che noi siamo figli di qualcuno (cioè abbiamo una storia, che ci fa tra l’altro diversi, ci fa unici, ci fa non meri individui, ci fa appartenenti ad un luogo anche se aperti a tutte le alterità che vogliamo, che ci fa radicati da qualche parte, anche se non ottusamente localistici, portatori di un nome, di una specificità, di unicità) e dall’altra parte padri di altri, naturalmente non solo in senso biologico, ma con una responsabilità rispetto alle generazioni successive.

Questo codice generativo è un codice molto diverso dal codice dell’individualismo contemporaneo che è puramente orizzontale. Se si ragiona sul piano orizzontale, non si trova una via di uscita. Provocatoriamente sul piano orizzontale si ragiona così: la solidarietà alla fine sono tutte belle parole, ma si perde tempo, quindi facciamo funzionare le cose bene, e questa è la solidarietà massima che si possa realizzare.

Il codice generativo può aiutarci a star dentro questa dinamica molto potente (e che non va assolutamente demonizzata, né disprezzata) aprendo uno spiraglio di umanizzazione.

Quattro verbi per declinare il codice generativo

Cosa può aiutarci a dire questo canone generativo? Esso ci aiuta a dire che la vita non si ferma. Che noi non siamo padroni della vita. Che la vita è esigente. Che la vita, intesa come biologia, ma anche come senso, come significato, come rapporto tra le generazioni, ci chiama, ci convoca ad esserci.

Qual è il problema dell’individualismo contemporaneo radicalizzato in quel modello? Che alla fine gli spazi di senso e di esistenza del singolo individuo si comprimono in maniera molto forte. Cioè il sistema tecno-economico di cui oggi non possiamo fare a meno e che ci permette di avere beni, possibilità, occasioni, tende ad essere un meccanismo che ha uno strapotere nei confronti della vita individuale: ci si illude sempre, come singoli individui, di arrivare al punto in cui tu sei in grado di controllare quel sistema tecnico.

Ogni tanto guardo i politici e mi fanno una grande pena. Immaginiamo la giornata del politico contemporaneo oppure di un grande manager di azienda. È una condizione di vita allucinante, nel senso che il livello di velocità e di complessità che deve essere gestita è una cosa disumana. Perché questi sistemi hanno una potenza per cui o si è marginali, o quanto più ci si avvicina alle loro dinamiche centrali, tanto più la velocità e la complessità ti travolgono. E trovare un punto di equilibrio rispetto alla vita personale è molto difficile, perché si rischia la marginalità. Fino ad essere scartati.

Il codice della generatività, assumendo una prospettiva intertemporale, afferma che questa dinamica tecno-economica è positiva laddove lascia lo spazio di una vita umana dotata di senso e fondata su relazioni. Relazioni che hanno la caratteristica di un prima e di un dopo.

 Ci sono quattro verbi che declinano il codice generativo: desiderare, mettere al mondo, prendersi cura e lasciare andare, verbi che delineano una specie di paradigma.

Desiderare. Nella società radicalizzata degli individui, desiderare è accedere ad un godimento concettualmente di tipo consumistico. L’idea è che io sono un individuo e che devo esprimere i miei desideri. Desiderio significa che intorno a me c’è un mondo che mi offre un numero tendenzialmente crescente di possibilità. Allora desiderare significa essere aperti e impossessarsi di qualcuna di queste possibilità. È il prendere quella possibilità e portarsela a casa. Detto che questo movimento viene tradotto dall’atto del consumare, cioè del mettere dentro – consumare è un modo attraverso cui noi prendiamo un pezzo della realtà fuori di noi e la mettiamo dentro. Quindi non è in sé qualcosa di male. Va benissimo consumare. Il problema è che nella realtà contemporanea il desiderio consiste nel «tu devi consumare». Il sistema fa aumentare le possibilità per tutti ed essere liberi significa prendere qualcuna di queste possibilità e portarsela a casa. Nel codice generativo il desiderio non è semplicemente prendere delle possibilità, ma essere portatore di una capacità generativa, noi mettiamo dentro ma abbiamo anche la facoltà di mettere fuori. Non vuol dire che si è buoni, vuol dire che così come ci si arricchisce mettendo dentro, ci si arricchisce anche mettendo fuori. Se immaginiamo un’idea di libertà come solo mettere dentro, si producono gli effetti che vediamo: bulimia, anoressia, obesità, non senso, depressione, perché alla fine non se ne può più di mettere dentro! Pensate anche alla trasformazione della relazione affettiva. Se si pensa al mettere dentro, la famiglia non ha senso. Può avere senso la famiglia se tu capisci che vuoi costruire qualche cosa insieme e mettere al mondo.

Mettere al mondo. Abbiamo il desiderio di mettere al mondo come uomini e donne liberi. E se abbiamo il desiderio di mettere al mondo – non solo figli evidentemente, ma una attività economica, una associazione, dei giovani che seguiamo come insegnanti –, questa capacità del mettere al mondo ha bisogno di spazi, di luoghi, di forme. Non è che tutto deve girare a velocità folle, perché altrimenti non metti al mondo proprio niente. Non si tratta di tornare al tempo agricolo, ma il mettere al mondo ha un tempo diverso della velocità dell’individualismo consumerista e tecno-economico contemporaneo.

Prendersi cura. È un atto economico. Significa avere gusto rispetto per ciò a cui noi dedichiamo il tempo, la passione.

E poi lasciar andare. Cioè sapere che la vita va avanti, che ciò che abbiamo creato, fatto, inventato, generato, prenderà strade nuove, diverse da quelle che abbiamo immaginato. Se non lo si lascia andare, ciò che abbiamo messo al mondo muore.

Cambia tutto!

Il punto è che se si immagina la città come il luogo della generatività, del codice generativo, cambia veramente tutto.

Si pensi alla scuola: se si ha in mente il modello tecno-economico, si tratta di estrarre il massimo delle capacità cognitive, i ragazzi si devono mettere a correre, ci saranno quelli bravissimi che raggiungeranno risultati eccellenti e quelli meno bravi che dovranno accontentarsi. Questo modello così non può bastare. Occorre preparare i giovani a lavorare, certo. Occorre anche saper valorizzare i migliori. Ma poi occorre formare persone e offrire strade buone anche per chi ha qualità diverse da quelle riconosciute dal sistema tecno-economico. Il comparto dell’educazione e della formazione è la base di qualunque società evoluta. Se come comunità, come città, non si investe a partire, come sappiamo, dai primi mesi di vita, se non si creano contesti di accompagnamento e di stimolazione del bambino e del suo percorso di crescita, la partita è già persa. Ecco allora l’importanza della logica generativa. Il comparto della scuola e dell’educazione ha bisogno di diventare il centro di una grande innovazione sociale, e dove se non nelle città tale innovazione si può realizzare?

Pensiamo al tema dell’abitare. Noi siamo tutti figli di Le Corbusier, che ha trasferito l’idea della fabbrica all’idea della casa. Noi in Italia abbiamo una storia dell’abitare completamente diversa, per fortuna! Infatti gli stranieri quando arrivano in Italia s’accorgono che arrivano in un altro mondo: l’abitare è un luogo, anche strutturalmente, della relazione. Il codice generativo ha bisogno di ripensare la città uscendo, liberandosi dalla concezione tecno-individualista e ricreando spazi e occasioni di una socialità senza la quale non c’è lo spazio di quella diversità di cui parlavo prima.

I beni di comunità sono una grande opportunità per una città concepita secondo il codice generativo. È chiaro che noi abbiamo bisogno di una serie di servizi nella città, però un conto è se si pensano solo secondo il codice tecno-individualista, un conto se si pensano secondo un codice generativo-comunitario.

L’ultima osservazione è a proposito della libertà religiosa, della presenza delle chiese e dei mondi religiosi nella città. Uno dei patrimoni di cui l’umanità dispone per compensare e tenere in equilibrio la spinta tecno-economica sono proprio i patrimoni religiosi.

In una città la presenza di luoghi di culto, di luoghi in cui è visibile l’esperienza religiosa, è un elemento fondamentale per tenere in equilibrio la spinta che viene dai sistemi tecno-economici. E dunque anche questo aspetto va rivisto e ripensato perché anche i luoghi di culto e le attività di aggregazione che possono nascere intorno all’esperienza religiosa sono importanti. Il codice religioso è molto vicino al codice generativo nel momento in cui ci ricorda che siamo dentro una storia che viene prima di noi e che prosegue dopo di noi.

Ho fatto solo qualche accenno per dire che l’ipotesi su cui mi sembra utile lavorare non va in rotta di collisione rispetto alla spinta tecno-individualista. Si tratta piuttosto di identificare un punto di leva su cui  avviare processi di innovazione della nostra vita urbana contemporanea. Solo se avremo il coraggio dell’innovazione avremo qualcosa da dire rispetto al modello iper-individualistico che ci viene proposto. Solo se saremo all’altezza di quella sfida, un codice generativo può avere senso.

 

di Mauro Magatti - Relatore al Convegno ecclesiale nazionale di Firenze.
Docente di Sociologia generale all’Università Cattolica di Milano e Sociologia della religione presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale.

 

Articolo pubblicato dalla rivista culturale dell’Ac Dialoghi (n.3-2015)