Ma basta il multiculturalismo?

Immigrazione (e cittadinanza)

“Cittadinanza multiculturale” o “interculturale” è un termine ormai entrato nel linguaggio comune e - fatta eccezione per le posizioni fanaticamente e irrazionalmente contrarie all’accoglienza degli immigrati -, viene usato positivamente nel dibattito in corso anche nel mondo cattolico. Tanto positivamente, talvolta, da suscitare qualche perplessità. Non si tratta, naturalmente di perplessità legate all’accoglienza, ospitalità, rispetto, riconoscimento giuridico degli immigrati, ma delle conseguenze a lungo termine del processo cui stiamo assistendo da ormai molti anni e che di recente ha assunto connotati particolarmente drammatici, come ben sappiamo.

Proviamo a chiederci cosa possiamo intendere con “cittadinanza”. Non è soltanto l’attribuzione e il godimento di diritti civili e politici, ma consiste nella condivisione di un patrimonio culturale fatto di tradizioni, valori, usanze, credenze che lungo i secoli hanno formato un popolo determinato e, come tale, diverso dagli altri. A questo riguardo, è evidente che un’autentica cittadinanza non si crea e non si consolida in qualche anno e non si può rapprendere in qualche certificazione burocratica o in corsi di cittadinanza accelerata. La conseguenza inevitabile è che gli immigrati, mentre da un lato perdono poco a poco la loro identità di origine, lasciandola alle loro spalle, dall’altro non potranno mai acquisire veramente quella dei paesi che li ospitano. E non sarebbe neppure giusto che acquisissero quest’ultima perdendo la prima, perché la loro identità è connessa inestricabilmente alla loro terra. I sostenitori delle politiche del multiculturalismo spesso dimenticano o sottovalutano questo dato di fatto. Ciò avviene perché, così almeno mi pare, confondono le necessità dell’accoglienza in un tempo di transizione con quella che ritengono possa essere - ma che non potrà mai essere - una nuova civiltà del futuro “post-nazionale”.

Che senso ha quest’affermazione apparentemente così radicale e dura? Credo la si possa spiegare come segue. L’interscambio tra le culture, il dialogo, il confronto, la reciproca integrazione dei popoli del mondo sono cose nobili e avrebbero, se concretizzate, un valore epocale. Ma potranno essere attuate effettivamente e pienamente soltanto quando i popoli in questo momento arretrati, devastati dalle guerre, sfruttati dai paesi ricchi, saranno liberi da tali catene. Insomma, quando godranno di effettiva uguaglianza nelle possibilità di sviluppo socio-economico, civile, politico, e avranno finalmente potuto (se mai avverrà) recuperare i legami con le loro radici, che oggi sono costretti a recidere. Per ora, possiamo offrire, a uomini, donne e bambini in fuga, quella che definirei una cittadinanza d’emergenza, cercando contemporaneamente di aiutarli a ritessere qualche filo della trama spezzata delle loro usanze, costumi, abitudini, valori. Ma così non si costruisce alcuna nuova civiltà, comunque vogliamo chiamarla - multiculturale, interculturale, e via così. Si può al massimo cercare di provvedere al necessario in una condizione emergenziale (quando lo si fa e non ci si accanisce, invece, a trovare inediti modi di sfruttare la mano d’opera a basso costo che gli immigrati, per molti, rappresentano). Senza dimenticare che nel frattempo le culture d’origine, cioè le radici vitali di milioni di esseri umani, stanno scomparendo nelle terre dove erano nate, terre che diventano sempre più dei deserti senza nome. E un’unica cultura si avvia a colonizzare il pianeta: quella del mercato mondiale. Questi deserti senza nome mi pare siano la realtà che i sostenitori del multiculturalismo/interculturalismo non considerano a sufficienza. Si potrebbe dire che il loro punto di vista è decisamente viziato da un “occidentalismo” che subiscono più o meno consapevolmente nel momento stesso in cui lo criticano a parole.

C’è un’altra strada? Certo che c’è. Come sempre è la più difficile, ma è l’unica - come indica da decenni il magistero della Chiesa - adatta a costruire una vera cittadinanza cosmopolitica dopo che avremo attraversato la transizione che oggi viviamo. Consiste nel realizzare una giustizia internazionale che promuova lo sviluppo dei popoli poveri, che ponga fine alle guerre fratricide, che vieti il commercio delle armi, che faccia crescere il benessere là dove oggi ci sono solo morte e distruzione. E che quindi potrà (forse) consentire ai figli dei figli degli immigrati odierni di tornare nelle loro terre (sperando che esistano ancora) e da lì ripartire, se lo vorranno, per muoversi liberamente in un mondo che oggi li costringe invece a pellegrinare incalzati da una crudele necessità.

Insomma, la civiltà mondiale basata sulla “fusione degli orizzonti” tra le genti di tutto il globo, ognuna con le sue millenarie tradizioni, è ben altra cosa dal “multiculturalismo” odierno. E non la si costruisce partendo da quest’ultimo, perché il multiculturalismo sta totalmente dentro la logica del capitalismo avanzato. È il fragile rimedio a una tragedia che la globalizzazione capitalistica ha creato, una tragedia da cui non si esce creando isole per ospitare alla meno peggio brandelli di tradizioni etniche e culturali che, intanto, stanno morendo nei loro luoghi di nascita. La civiltà mondiale realmente cosmopolitica la dovremmo pensare, piuttosto, come mèta cui puntare dopo che saranno eliminati i tremendi ostacoli che impediscono ancora di far poggiare il confronto e la cooperazione tra i popoli sull’uguaglianza, sulla libertà, sulla piena padronanza delle terre in cui ogni popolo ha diritto di abitare. Altrimenti - e questo mi sembra il rischio più serio - la parola d’ordine della società “multiculturale” diventerà, come in parte già è, l’ideologia di una globalizzazione i cui fautori e protagonisti tendono distrattamente l’orecchio ai dibattiti eruditi sull’“appartenenza”, sulla “nuova cittadinanza”, sui “diritti specificati”, mentre continuano a condannare i “dannati della terra” a restare come sono, cioè le vittime predestinate del “turbocapitalismo” senza freni. Assistere e accogliere va bene, ma solo se contemporaneamente ci battiamo sul serio - assumendo radicalmente la fatica della lotta politica (pressione sui partiti e sulle istituzioni nazionali e internazionali, mobilitazione della società, utilizzazione dei mass media, creazione di soggetti politici che pongano questi temi al primo punto della loro agenda politica, forte sensibilizzazione delle associazioni cattoliche e non, pressione sull’Europa) - contro l’ingiustizia che ha reso necessario questo genere di accoglienza. La prima cosa senza la seconda è una pericolosa diversione, politica e culturale, rispetto al compito storico del presente. Significa, di fatto, piegarsi allo statu quo. Dovremmo unire la solidarietà del giorno per giorno - quella che raccoglie i naufraghi e poi li aiuta come può - con la ricerca della giustizia, che impone di non dover essere più costretti a racimolare cadaveri sui bagnasciuga e ad affrontare un’emergenza che si trova di fronte non solo l’insopportabile mancanza di solidarietà di molti Stati, ma che sta arrivando, su un piano più generale, al limite delle possibilità che i paesi europei hanno (e avranno sempre più) di gestirla. Inoltre, non dovremmo compiere l’errore di lasciare la critica attiva contro l’attuale capitalismo mondiale solo in mano a chi, come una considerevole parte dei “no-global”, la pratica con il ricorso a ideologie da antiquariato e troppo spesso con la violenza.

 

di Roberto Gatti Docente di Filosofia politica nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Perugia
Dal sito 
http://azionecattolica.it