Il Papa dei sogni e delle periferie

Franciscus dagli occhi di un giovane
di Lorenzo Pellegrino*

 

Nel 2013 ero poco più che un ragazzino, frequentavo il secondo superiore, mi piaceva la matematica e impegnarmi per gli altri. Nella Chiesa. In Ac mi veniva bene, era come trovare un terreno fertile. Quell’anno è iniziata anche la gran bella storia che è stata per me il Msac e mi ritengo fortunato. Perché una Chiesa diversa da quella di Papa Francesco non la conosco e non la voglio conoscere. Non la contemplo. Non riesco proprio a immaginare una Chiesa che non stia dalla parte degli ultimi, una Chiesa che si rinchiuda nelle sacrestie, una Chiesa che non abbia l’odore del popolo e il sapore della Misericordia.

 

Non per questo non ne sono profondamente sorpreso. Mi ha sempre sorpreso, incontrando Papa Francesco, di non riuscire a dire nulla se non “Grazie!”, di cuore. Come mi ha sempre sorpreso che il Papa ci salutasse con il buongiorno, la buonasera o anche il “buon pranzo”. Uno di famiglia. D’altro canto, se la Chiesa non è una famiglia che cos’è? Francesco non prendeva questo fatto alla leggera, lo sentiva come una responsabilità, e allora ha scelto di incarnare il cambiamento che aveva sognato tra le favelas argentine e nelle periferie più remote della “fine del mondo” dalla quale diceva di provenire. La stessa fine del mondo, gli “estremi confini della terra” in cui il Signore manda gli apostoli (At 1, 8).
Allora, conoscendo i confini più lontani, il Papa ci ha mostrato come non esista un confine che non possa essere superato dall’annuncio. Sin dai primi mesi del suo pontificato ci ha raccontato che essere discepoli-missionari è possibile solo se superiamo la logica ad intra/ad extra. La buona notizia deve essere raccontata a “todos todos todos”.

 

Infatti, la Chiesa di Francesco allora non è stata un manifesto programmatico di scelte pastorali che potevano riavvicinare le persone alla fede; al contrario è stata (e continua ad essere) una festa di accoglienza. Un’oasi di fraternità che non lascia nessuno indietro e nella quale “Nessuno deve essere messo o potersi mettere in disparte” (CV 206).

 

Il mandato di Papa Francesco ha coinciso esattamente con gli anni in cui, da adolescente, diventavo giovane. In qualche modo, in questi giorni in cui piangiamo la sua scomparsa da questo mondo, mi sento chiamato ad assumere una responsabilità più adulta. Non credo che con la sua morte sia finita la Chiesa dell’accoglienza, della Fraternità e della Gioia del Vangelo. Tutto il contrario. Francesco ha consegnato a quei ragazzini che nel 2013 scoprivano chi era il loro Papa, la speranza di cambiare davvero. Ma occorre impegnarsi. Le chiacchiere “da parrocchia” non contano nulla e, invece, quello che conta è stare dalla parte di chi soffre, di chi è oppresso, di chi non riesce ad esprimersi. Conta davvero raccontare a tutte e tutti che la comunità cristiana non può fermarsi ad occuparsi dei bisogni materiali. Bisogna puntare ai sogni tenendo a mente che “I sogni più belli si conquistano con speranza, pazienza e impegno, rinunciando alla fretta”.

 

Allora, nel 2025, non sono più un ragazzino, mi piace ancora la matematica e impegnarmi per gli altri. Ma grazie a un Papa venuto dalla fine del mondo ho capito che per farlo nella Chiesa devo necessariamente farlo fuori, in missione nelle periferie, dalla parte dei sogni dei più fragili.

 

*Responsabile diocesano Settore Giovani, parrocchia "San Nicola Vescovo" - Nociglia