L’infamia del caporalato

Lavoro e diritti negati

«Non defrauderai il salariato povero e bisognoso, sia egli uno dei tuoi fratelli, o uno dei forestieri che stanno nel tuo paese, nelle tue città; gli darai il suo salario il giorno stesso, prima che tramonti il sole, perché egli è povero e lo desidera; così egli non griderà contro di te al Signore e tu non sarai in peccato». È l’ammonimento universale che da millenni compare nel Deuteronomio (Dt 24,14-15) ma che, viste le condizioni di sfruttamento lavorativo in cui versano ancora migliaia di persone in Italia, risulta essere ancora drammaticamente attuale.
Gli ultimi dati sul caporalato fotografano infatti in modo impietoso la gravità di questa vergognosa pratica. Sarebbero almeno 400mila i lavoratori coinvolti nel caporalato in Italia, l’80 per cento stranieri. Uomini e donne spesso costretti a consegnare metà della loro retribuzione al caporale e che ricevono un salario tra i 25 e i 30 euro per una media di 10-12 ore di lavoro al giorno (circa la metà di quello stabilito dai contratti nazionali).
Il fenomeno coinvolge tutta la penisola: è maggiormente diffuso nel Mezzogiorno ma è in aumento anche al Centro e al Nord dove, in particolare, le modalità di reclutamento e impiego della manodopera sono più ingegnose e “discrete” ed avvengono mediante messaggini sul cellulare piuttosto che il concentramento nelle piazze dei paesi o l’utilizzo di contratti di lavoro “fittizi” spesso di cooperative di servizi. Tra tutti questi lavoratori sfruttati, si stima ve ne siano 100mila che soffrono di un disagio abitativo e ambientale, non avendo accesso all’acqua corrente e ai servizi igienici. In alcune campagne della nostra penisola, le condizioni di sopravvivenza sono davvero estreme: migliaia di braccianti-schiavi vivono in veri e propri ghetti fatti di baracche di legno e lamiere, ricoperte da teli di nylon o sacchi di concime trovati qua e là nei campi, dove l’acqua si raccoglie in bidoni di fortuna e le fogne sono a cielo aperto.
Il caporalato in agricoltura è un fenomeno complesso, multiforme che tende ad associarsi sempre più frequentemente ad altre forme di reato: contraffazione alimentare, truffa, contratti di lavoro falsi, sottrazione e furto dei documenti di identità fino alla riduzione in schiavitù. Secondo recenti dati, il caporalato danneggerebbe il nostro Paese per oltre 600 milioni di euro all’anno di mancato gettito contributivo. Il settore agricolo è quello dove si registra la maggiore incidenza dell’economia sommersa.
Di recente il Senato ha dato il via libera al Disegno di Legge contro il caporalato. Con il Ddl n. 2217 vengono inasprite le pene, non solo per il caporale, infatti, con la riscrittura dell’art. 603-bis del Codice penale, oltre ad aumentare fino a 6 anni il periodo di reclusione per chi commette il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, cioè per il “caporale”, sarà punito con una multa da 500 a 1000 euro per ogni lavoratore reclutato chiunque impiegherà manodopera in condizioni di sfruttamento. Ora però è necessario che l’iter del Ddl si concluda rapidamente e senza tentennamenti, ottenendo la definitiva approvazione a Montecitorio.
Ben venga qualsiasi iniziativa legislativa volta a contrastare lo sfruttamento della manodopera e del lavoro nero in agricoltura. Ma le regole da sole non bastano; serve una “conversione” del mondo del lavoro tesa a riscoprire la centralità dell’uomo; riconoscere il lavoro quale elemento primario per la realizzazione e autodeterminazione della persona e condizione essenziale per la sua libertà e cittadinanza piena. Promuovere questa cultura del lavoro è la sfida, il compito che il nostro Mlac e le comunità cristiane tutte dovrebbero sentire proprio: ancora un po’ di tiepidezza in questo campo e rischieremo seriamente di peccare di omissione.

 

di Andrea Padoan - Membro dell’équipe nazionale del Movimento Lavoratori di Azione Cattolica
dal sito: 
http://azionecattolica.it/