La rivoluzione dell’ecologia integrale

Un nuovo modo di ripensare la qualità della vita umana

L’enciclica Laudato si’ è indubbiamente una straordinaria piattaforma per una nuova elaborazione politica: l’ecologia integrale costituisce l’orizzonte di un profondo ed esigente ripensamento della politica. La logica che non lascia spazio ad una sincera preoccupazione per l’ambiente è la stessa in cui non trova spazio la preoccupazione di integrare i più fragili (196).

Le nostre democrazie moderne sembrano assistere ad una complessa involuzione, tra un progressivo affievolimento della partecipazione e della responsabilità civica e la crescita del sostegno elettorale alle piattaforme estremiste che inneggiano demagogicamente a forme sempre più tribali di nazionalismo e di difesa identitaria di tradizioni e rendite di ogni tipo.

La politica nazionale, schiacciata dallo strapotere della finanza speculativa e dagli interessi transnazionali e globalizzati di soggetti economici sempre più spregiudicati e disinibiti, non riesce a rigenerarsi nei territori e nella società senza perdersi nel “leghismo” o nel movimentismo privo di una visione generali. Le istituzioni internazionali e le organizzazioni emerse nel tempo della nuova Governance Multilevel fanno fatica ad essere “inclusive” e spesso reinterpretano il proprio ruolo in senso tecnocratico, contribuendo a determinare un sistema di regole e di convenzioni sottraendo spazi di sovranità alla partecipazione popolare.

In tale scenario istituzionale aumenta la disuguaglianza - o come la definisce papa Francesco l’inequità - ossia l’aumento più o meno simultaneo dei divari territoriali di crescita produttiva e di sviluppo economico tra sistemi territoriali e Paesi, la polarizzazione dei redditi tra individui e famiglie, le disparita nei processi di accumulazione del risparmio e della ricchezza finanziaria di soggetti pubblici e soggetti privati.

Riagganciare dimensione finanziaria e dimensione economica dei processi produttivi, restituire il ruolo di programmazione strategica alla politica, convertire in senso sostenibile tecnologi e processi produttivi ed urbani, sostenere il protagonismo sociale delle persone e delle organizzazioni sono sfide che vanno affrontate insieme. Tutto è connesso.

Lo sguardo di insieme cui ci richiama l’enciclica passa certamente da un approccio olistico, non specialistico o tecnocratico alle singole questioni, un approccio partecipato e che sollecita le responsabilità di ciascuno, un processo di coinvolgimento nella ricerca delle soluzioni che chiede empatia, trasparenza e dialogo ossia capacità di integrare competenze, sensibilità e visioni.

Tale approccio integrale passa attraverso una prospettiva ben precisa: quella dei deboli, dei fragili, dei vulnerabili: nelle condizioni attuali della società mondiale, dove si riscontrano tante inequità - il principio del bene comune si trasforma immediatamente, come logica conseguenza, in un appello alla solidarietà e in una opzione preferenziale per i più poveri (158). Una simile prospettiva costituisce - a mio parere - un importante avanzamento del già ricco corpus del Magistero sociale della Chiesa. La definizione conciliare di Bene Comune, che prende le distanza da una riduzione meramente additiva di interessi e “utilità” tipica delle filosofie utilitariste che hanno alimentato il pensiero e l’azione di molti studiosi ed operatori economici, per aprire la strada al fondamento comunitario e relazionale del Progresso sociale, inteso come avanzamento solidale di ogni persona che aspira a realizzare la propria felicità, non in contrapposizione ma in sintonia e sincronia con gli altri.

Papa Francesco invita tutti a porsi in una prospettiva radicalmente evangelica, autenticamente “francescana” e profondamente anti-conformista: il Bene Comune non è soltanto Coesione Sociale, ma Inclusione Sociale. Chiaramente si possono intravvedere in tale posizione anche le recenti e moderne teorie dello sviluppo umano, la riflessione di Amartya Sen e di Martha Nussbaum, la lezione di Partha Dasgupta e quella di Ester Duflo, i contributi dissonanti di William Easterly e persino le recenti critiche sul modello di politiche di sviluppo delle istituzioni internazionali proposte dai ricercatori del International Monetary Fund.

La grande questione politica del nostro tempo è ancora la riduzione della povertà e l’accesso ad una vita dignitosa di una vasta parte delle popolazione mondiale, questione aggravata dal progressivo arretramento nella scala sociale della cosiddetta Middle Class che, come osserva Branko Milanovic nella sua celebre Elephant Curve, dove attraverso una rigorosa e puntuale documentazione statistica si evidenziano “vincitori&perdenti” dell’attuale fase della globalizzazione, dischiudendo uno scenario di profonde e radicali trasformazione geopolitica e una nuova mappa del potere economico e finanziario.

Del resto l’ormai strutturale crescita dei flussi migratori, ancorché essere l’esito tragico di conflitti e persecuzioni, è l’indiretta conseguenza di un modello neocoloniale nelle politiche commerciali delle multinazionali combinato ad un approccio neoliberista nelle politiche di sviluppo. Sfruttamento delle risorse naturali ed umane, cambiamento delle condizioni climatiche e instabilità politica costituiscono il mix perverso che consolida un modello di “istituzioni estrattive” per dirla con Acemoglu e Robinson.

Ripartire dai deboli equivale anche a ripartire dai territori, da un modello di sviluppo dal basso “compatibile” con una crescita sostenibile e ad un utilizzo meno dissennato delle risorse naturali. È la sfida che viene affrontata da molta cooperazione internazionale che scommette su programmi di educazione, di prevenzione sanitaria, di formazione civica e di professionalizzazione imprenditoriale e tecnologica.

Oggi, pensando al bene comune, abbiamo bisogno in modo ineludibile che la politica e l’economia, in dialogo, si pongano decisamente al servizio della vita, specialmente della vita umana (189) Ancora una volta papa Bergoglio ribadisce la centralità della persona umana, delle sua naturale e fondamentale aspirazione a “compiere” il proprio sviluppo attraverso una libera espansione delle proprie capacità. Il compito della politica è rimuovere e sostenere tale libera crescita in una logica di sussidiarietà. Ma c’è un’etica ecologica da apprendere in tale processo di espansione, che richiede un cambiamento degli stili di vita ed un’attenzione maggiore alla propria “impronta ecologica”.

La sfida della sostenibilità ribadita ancora una volta dai 17 obiettivi per il 2030 costituisce un importante riferimento per una politica che vuole davvero guardare lontano. Gli obiettivi sono articolati e collegati tra di loro quasi a voler significare la “connessione” che esiste tra economia società e ambiente ma anche tra impegno personale e sociale, ruolo delle istituzioni pubbliche e di quelle private, importanza del locale e del globale. Ciò che diventa necessario è “innescare un processo” poiché il tempo “è superiore allo spazio” come aveva già scritto il pontefice nell’esortazione Evangelii Gaudium.

L’ecologia integrale costituisce allora qualcosa di ben più grande e di ben più profondo che una pur importante sensibilità verso l’ambiente e le sue attuali questioni; è un modo di ripensare la qualità della vita umana dentro una fitta serie di relazioni e interazioni che impongono una cura quotidiana dei nodi più fragili e vulnerabili della rete. La forza della catena si misura dalla tenuta dell’anello più debole.

 

di Giuseppe Notarstefano
Economista, vicepresidente nazionale dell’Ac e componente del Comitato scientifico organizzativo delle Settimane sociali.
Articolo pubblicato su www.benecomune.net nello speciale “Ma che tempo fa…”.